Contributi

NO LOGO, DAVID DE BIASIO
Alberto Agazzani

NO LOGO

Cose mentali

David De Biasio è un pittore-pittore. L'affermazione, così posta ad incipit del catalogo della sua prima mostra italiana, potrà sembrare retorica, ma non è così. La Pittura, ci insegna Leonardo, è soprattutto “cosa” mentale. Picasso la definiva “qualcosa che sta fra la tela ed il colore”. La Pittura, dunque, non può essere ridotta ed intesa come un linguaggio espressivo e basta, ma bensì come il risultato, l'espressione, il fine di una comunicazione/astrazione che si realizza tradizionalmente con tela, pennelli e colori. Eppure la nostra modernità ci ha abituato che possono essere espressioni di Pittura anche opere d'arte realizzate attraverso altre tecniche e linguaggi. Sarebbe ottuso non riconoscere che i video di Bill Viola o certe installazioni di Damien Hirst o Jeff Koons, per citare tre esempi estremi, non contengano una forte componente “pittorica”, ancorché perseguita con mezzi non tradizionali. Differente, e qui centrale, è il punto che riguarda la fotografia che, nascendo come imitazione e semplificazione della Pittura (Daguerre era un pittore e Niépce un incisore), ha sempre mantenuto una sorta di sudditanza con essa, ponendosi solo nella modernità più estrema l'obiettivo di affrancarsene. Ma il legame strettissimo di sostanziale dipendenza fra fotografia e pittura è una verità solo parziale e facilmente controvertibile in quanto l'utilizzo di strumenti ottici, gli antesignani della moderna fotografia per l'appunto, erano già  utilizzati ed anzi ritenuti fondamentali nella pittura sin dalla prima metà del XV secolo. Esempi straordinari di ciò si hanno da van Eyck, Leonardo e Caravaggio fino ad Ingres via via fino a noi, agli Iperrealisti americani per l'appunto. E' con questi ultimi, infatti, che alla fine degli anni '60 del secolo scorso s'inverte il rapporto fra fotografia e pittura. Nella scena  artistica statunitense di quegli anni l'Arte non rappresenta più sè stessa e si spoglia di ogni riferimento estetico o addirittura visivo, trasformandosi in una sorta di antiarte. La nuova Arte americana deve interrogare ed interrogarsi, provocare una riflessione, ad ogni costo, non esibirsi, stupire né tanto meno narrare o illustrare. Il soggetto dell'opera d'arte si sposta così dall'immagine all'evento, con tutto ciò facendo decadere il secolare primato del l'icona e la centralità dell'oggetto/soggetto. In questo scenario dominato da un astrattismo variamente coniugato (dal violento espressionismo di Pollock e De Kooning alla serafica spiritualità di Rothko) s'inserisce la nascita del Fotorealismo, derivazione altra (e alta) della Pop Art, con la quale condivide il ritorno all'oggetto/soggetto, il fondamento ipervisuale e, soprattutto, “l'estetica radicata negli artefatti visuali della cultura di strada”(1). Senza troppo dilungarsi sulle modalità espressive dei pittori fotorealisti originari, ai fini di questa introduzione risultano importanti due aspetti della tradizione fotorealista americana: il riferimento costante alla “cultura di strada” del cosiddetto “mito americano” e l'utilizzo della fotografia, anche come base per la realizzazione dei propri dipinti. La prima caratteristica è facilmente riscontrabile nella scelta dei soggetti: scorci urbani, oggetti di quotidiano uso, simboli della cultura popolare americana (automobili, motociclette, insegne luminose, marchi, loghi, icone pubblicitarie, ecc). La seconda, più insidiosa nella parte che fonde tecnicamente pittura e fotografia, è riscontrabile in molti storici protagonisti di quella stagione che anzi facevano (e fanno) dichiaratamente ampio uso di basi fotografiche impresse sulla tela,  identificando in ciò una profonda carica concettuale rivoluzionaria (da Paul Staiger, Stephen Posen, Franz Gertsch e Chuck Close fino a Peter Maier).

In pittura, si sa, il fine giustifica sempre i mezzi e da secoli i suoi strumenti espressivi si sono evoluti insieme alle nuove scoperte scientifiche e tecnologiche. E da altrettanto tempo si creano e si ergono schiere di puristi pronti a mettere in discussione la liceità o meno dei nuovi strumenti o tecniche adottate. Quando all'inizio del '400 Jan van Eyck perfezionò la pittura ad olio, introducendone l'utilizzo preferendola alla tradizionale tempera grassa, vi fu chi urlò allo scandalo e si parlò addirittura di “tecnica impura”. Lo stesso scandalo si realizzò con la coeva introduzione della camera ottica, progenitrice della fotografia e del cinema, e che  oggi parimenti si rinnova per l'utilizzo di proiettori, aerografi o basi fotografiche. L'utilizzo della tecnologia in arte ed in pittura, dunque, non rappresenta nulla di inedito né di realmente inaccettabile. Nel caso delle basi fotografiche, però, il discorso necessita di un doveroso approfondimento. Grazie oggi all'utilizzo semplificato ed accessibilissimo di plotter e stampanti d'ultima generazione, supportate da apparecchi fotografici digitali e da sofisticati programmi di elaborazione delle immagini, si è rapidamente (e misteriosamente) creata una tanto folta quanto sospetta schiera di “pittori iperrealisti”, chiamiamoli così, dalle sorprendenti  capacità tecniche. Il sospetto e la sorpresa non nascono tanto dalla straordinaria e davvero seduttiva bellezza dei quadri realizzati, ma piuttosto dall'improbabile quantità delle opere prodotte, oltre che dall'altissima definizione calligrafica, in certi casi evidentemente impossibile da raggiungere con gli strumenti tradizionali della pittura. Il sospetto, dunque, che si tratti di immagini elaborate al computer, fotograficamente impresse su tela e ridipinte (o ritoccate) è qualcosa più di una supposizione e, di per sé, se apertamente dichiarata come nel caso dei maestri americani, non rappresenterebbe né un minus né tanto meno possibile oggetto di riprovazione. Ciò che dovrebbe realmente far urlare allo scandalo, soprattutto a fronte di ostentati orgogli puristi e sbandierate ipocrisie etiche, è l'azione di chi trasforma il sospetto in realtà, nascondendo la vera natura delle proprie opere d'arte, ossia l'utilizzo di basi fotografiche prestampate,  trasformando così un qualcosa di assolutamente lecito in una colossale e grottesca farsa.

Quando all'inizio di questa presentazione ho definito David De Biasio un pittore-pittore intendevo da subito ed in maniera definitiva liberare il campo da qualunque dubbio in merito alla sua ricerca espressiva ed al suo sorprendente dominio tecnico; due caratteristiche che, come spesso accade in chi custodisce un talento autenticamente tale, intrecciandosi e fondendosi fra di loro creano la vera originalità, ossia quell'invenzione, quella conquista visiva del tutto inedita dalla quale difficilmente è possibile fare ritorno. L'educazione retinica di De Biasio si è formata in Italia, a stretto contatto con la Bellezza e la nostra grande tradizione artistica ed architettonica. E ciò pare evidente anche e soprattutto dalle sue scelte estetiche ed espressive, nell'adozione, almeno fino ad oggi, della “Natura morta” come genere privilegiato nonché per l'orgoglioso, ma mai ostentato né integralista, senso d'appartenenza a quella nobile genia di pittori profondamente legati alla dimensione artigianale del loro “fare arte”, all'irrinunciabile e voluttuosa “sensualità del contatto con la tela”, sono parole di De Biasio, attraverso pennelli e colori ad olio. 
De Biasio in questo senso è un pittore profondamente ancorato alla tradizione italiana, anche e non solo nel modo di guardare e rappresentare la sua realtà. Attento alla tradizione, sì, ma anche al suo rinnovamento: quella “tradizione del nuovo” per l'appunto che caratterizza la nostra arte da Giotto ad oggi. Se infatti rimangono puri e tradizionali gli strumenti del suo lavoro (tele bianche, telai, pennelli, colori ad olio e vernici), lo studio e l'elaborazione dell'immagine/soggetto si arricchiscono di nuovi stimoli e di nuovi mezzi: dalla fotografia digitale alla sua elaborazione computerizzata fino alla proiezione sulla tela, quest'ultima esattamente, ma in modo molto più evoluto, come avveniva con la tanto scandalosa camera ottica di un van Eyck, di un Leonardo o di un Caravaggio.

A proposito dei dipinti di David De Biasio si è spesso parlato, lo ha fatto anche il sottoscritto, di “Iperrealismo”, semplificando lucidamente e coscientemente i termini della questione e soffermandoci all'evidente superficie della loro manifesta espressività. Ma un pittore può essere definito iperrealista o fotorealista semplicemente in base all'altissima definizione del suo realismo? In una parola: può la forma prevalere sul concetto, sull'ideologia che sottende una maniera? Il Fotorealismo (americano) e il derivato Iperrealismo (Europeo) si basavano e tuttora poggiano, come visto, su concetti e finalità espressive ben precise e di diretta derivazione Pop, anche e non solo attraverso un uso del tutto inedito della fotografia. Tutto ciò, di contro, non è in alcun modo assimilabile alla ricerca espressiva, ed alle conseguenti creazioni, di tanti realisti “estremi” italiani. Nel Bel Paese, come in buona parte del Vecchio Continente, la tendenza ad un realismo assoluto ha origini ben precise e ben radicate nel tempo. Ancora e nuovamente si ritorna alla metà del '400 ed ancora a quel van Eyck rivoluzionario inventore di modi e tecniche. In Italia quell'esasperata ricerca di verità mimetica trova esempi straordinari e continuità attraverso la lezione di Leonardo, Caravaggio e Cagnacci, per citarne i primi, che tutto possono essere definiti, anche “pop” ante litteram forse, tranne che ideologicamente iperrealisti!

De Biasio stesso ha mosso i suoi primi passi nel mondo della pittura perseguendo un realismo classico tutt'altro che estremo. La sua rivoluzione visiva avviene negli Stati Uniti, dove ha vissuto dal 2003 al 2008, arricchendo le proprie capacità retiniche grazie al contatto col variegato e vivido ambiente artistico newyorkese e, soprattutto, con l'incontro diretto col Fotorealismo originale. Questa esperienza ha portato il pittore italiano non tanto ad un'adesione ideologica al concettualismo iperrealistico, ma piuttosto ad un apprendimento tecnico, ad approfondimenti puramente pittorici finalizzati al raggiungimento di un realismo estremo ed intriso di italico senso del Bello. 
Le sue nature morte, inoltre, risentono di un'altrettanto forte pulsione verso la luce e le meraviglie della Natura (non di rado rappresentata anche nella sua dimensione “minerale”, con marmi, conchiglie e pietre quasi da Wunderkammer), senza gli effetti speciali, le deformazioni specchiate e specchianti o le grandiosità americane, ma piuttosto indulgendo sulla forza ed il calore del colore, sull'armonia delle composizioni, su un assoluto, quasi matematico sebbene mai sidereo, controllo degli equilibri tutti. I soggetti, poi, sono quanto di meno “pop”, e quindi iperrealista in senso stretto, si possano immaginare ed anzi rientrano a pieno titolo in quel genere, la “natura morta”, che da Caravaggio in poi è stato proprio assunto e assurto come autonomo e tipicamente italiano. In questo caso si dovrebbe, dunque, parlare di “realismo estremo”, forse di “realismo cinico” in quelle circostanze nelle quali la freddezza della rappresentazione esclude qualunque implicazione emotiva che non sia lo stupore per la meraviglia calligrafica (ma non è il caso di De Biasio). Di certo non è concettualmente corretto, qui come altrove, riferirsi a concetti come “Iperrealismo” né tanto meno “Fotorealismo”. Anche nell'ultima ricerca pittorica di De Biasio, il ciclo “No logo” che qui viene presentato, la potenziale tendenza “pop” data dall'utilizzo di bottiglie immediatamente riconoscibili si trasforma in una sorta di neomorandismo al contrario, estremo, qui implacabile, inesorabile, talmente arrogante nella sua perfezione e nel gioco stupefacente della luce, delle ombre e dei riflessi da fugare qualunque tentativo di lettura qualunquemente iperrealista. L'intento altro, poi, è chiaramente perseguito attraverso l'eliminazione sistematica e totale di qualunque logo o marchio, “No logo” appunto, elementi, questi ultimi, essenziali, primigeni e ineludibili della natura Pop. Un ritorno alle origini, dunque? I dipinti di De Biasio ci confermano l'assunto martiniano secondo il quale l'unica modernità possibile è quella della sensibilità. De Biasio è l'evidente prova di come cinque secoli di storia possano ritrovarsi e rinnovarsi nel semplice e limitato spazio di una tela dipinta. Ma quello sguardo, quell'occhio e quella mente che ne sottendono la creazione sono i portatori di un'eredità e di una dignità che nessuna tecnologia, nessuna invenzione, nessuna scorciatoia potranno cancellare. Così come nulla potrà sostituirsi all'uomo nella realizzazione di quella “cosa tutta mentale” chiamata Pittura.

Galleria Gagliardi - 2009: Mostra personale di David De Biasio  "NO LOGO"; testo critico di Alberto Agazzani

1. Per questo ed altri riferimenti ci si può riferire a: Mercurio, Gianni, Iperrealismo e Fotorealismo, in “Iperrealisti”, Roma 2003.