Contributi

ISAO SUGIYAMA, Isao Sugiyama
Monica Demattè

ISAO SUGIYAMA

L’idea della materia 

Il grande sentiero non ha porte,
Migliaia di strade vi sboccano.
Quando si attraversa quella porta senza porta,
Si cammina liberamente tra cielo e terra.

Mumon

Il 1983, anno in cui Sugiyama giunse in Italia nel suo primo viaggio verso Occidente, che avrebbe dovuto portarlo negli Stati Uniti, fu per l’artista una grande scoperta e un “disastro”. Sugiyama era allora reduce da lunghi anni di studio in Giappone, durante i quali aveva raggiunto una conoscenza approfondita delle tecniche scultoree, e si dedicava a opere figurative di impronta accademica. Il confronto improvviso e massiccio con gli originali del passato - dai marmi dell’antica Grecia in poi - suscitò nell’artista un senso di inadeguatezza e inutilità che lo spinsero a considerare la possibilità di cambiare lavoro. Il successivo incontro con l’arte contemporanea, che permetteva una creazione più libera e sganciata dai canoni del passato, gli fece riprendere speranza e riconsiderare il significato stesso della parola “arte”, che da quel momento non si identificò più per lui con un’entità astratta decisa a priori da un maestro, ma con una vibrazione profonda e personale in risonanza con l’“anima” dell’artefice. Gli anni seguenti l’artista li ha dedicati a uno studio rivolto a se stesso, alla valorizzazione di un retaggio culturale non circoscritto agli studi artistici, ma risalente al periodo dell’infanzia trascorsa negli anni Cinquanta in un Giappone economicamente povero, eppure ricco di tradizioni e valori ancora vivi. E’ in Europa che l’artista ha trovato la legittimazione a liberarsi da molte regole formali rigide e costrittive che lo avevano allontanato da alcune sue passioni e abilità innate. La predilezione di Sugiyama bambino per il modellismo, per la manualità, trovano nelle sue opere di adulto una possibilità di impiego e sviluppo e si estrinsecano in un nuovo gioco più raffinato ma eseguito con la stessa autocompiaciuta spensieratezza. Il fatto di aver messo radici a Carrara, dove negli anni Ottanta frequenta l’Accademia, elegge il marmo a protagonista delle sue sculture. Sugiyama ama servirsi dei materiali che trova in loco; le varie tipologie del marmo gli suggeriscono diversi utilizzi e soluzioni formali. Dovendosi confrontare quotidianamente con la realtà italiana l’artista, per contrasto, scopre di essere imbevuto di sensibilità orientale. Immagini del culto shintoista, il più antico del Giappone, si fanno strada nella sua memoria e vengono espresse in scultura. E’ una religione, dice Sugiyama, molto semplice: sono circa 8.000.000 gli dei che si adorano e corrispondono a elementi naturali come il sole, l’albero, il vento…in un rapporto diretto con la natura, non competitivo ma piuttosto fiducioso, che l’artista non ritrova in Occidente. Il suo amore e rispetto per gli elementi naturali si esprimono proprio nel suo modo di trattare la materia: marmo e legno - i più usati - vengono uniti in modo da non diventare un’opera completamente umana, ma da mantenere forme e texture del loro stato originario. A questo scopo le “patate” carrarine di marmo - grossi tuberi di pietra dall’involucro scuro e irregolare, che rivelano un interno candido - sono perfette. L’artista ama utilizzarle così come sono, oppure sezionarle con tagli netti che rivelano un biancore inaspettato, in contrasto con la ruggine esterna. Spesso la pietra è tagliata in modo che la base sia un tutt’uno con gli elementi che vanno a formare le architetture sacre, i cosiddetti santuari che da una decina d’anni costituiscono il tema della ricerca di Sugiyama. La chiave per collegare natura e cultura, giochi d’infanzia e professione di scultore, materia e idea, passato e presente, sta proprio nel tema dei santuari, duecento sculture che l’artista ha ideato e pazientemente costruito giorno dopo giorno. Le dieci tipologie che l’artista individua all’interno del tema generale si riferiscono soprattutto alla struttura e alla combinazione degli elementi: in alcuni la massa è imponente e piena, in altri le superfici vengono interrotte da frequenti vuoti; qui e là ci sono particolari decorativi (come le “gocce di sole”, semplici motivi incisi o a rilievo) disseminati con discrezione. Colpisce il grande contrasto tra le masse lasciate allo stato originario e le superfici levigatissime, candide, a volte tanto sottili da diventare trasparenti. Si tratta però di contrasti insiti nella natura stessa, che l’intervento umano si limita a estrinsecare. Quando, come in “Santuario 135” (1997) su tre “patate” di marmo grezzo si erge in equilibrio precario un tempietto perfettamente geometrico, bicolore, l’artista attinge la purezza nelle risorse naturali della pietra impersonate dalla divinità cui il tempio è dedicato. Per far sì che il dio discenda nel suo santuario, il sacerdote shintoista si dedica alla perfetta pulizia del luogo. Lo spazio deve essere vuoto e immacolato. I fedeli non possono entrare ma pregano fuori; un tessuto bianco vela la soglia e permette solo di intravedere l’interno. Suggerite da sottili superfici di marmo, nei santuari di Sugiyama le cortine diventate di pietra sono a volte arricchite da un motivo di fori laterali che aggiunge leggerezza alla trasparenza e lascia passare l’aria - o lo spirito. Le lunghe scale che spesso - come nel complesso scultoreo “Un luogo sacro” (1993) - conducono alla porta (mon) del tempio sono esse stesse un percorso di purificazione; quando sono interrotte da un baratro, un vuoto che sembra impedire il passaggio, è lo spirito - l’immaginazione - che librandosi supera i limiti naturali.  Il legno è il materiale che più spesso si accompagna al marmo in questo dialogo tra spirito e materia. In lavori come “Santuario 154” (1998) le capriate in legno d’abete del tempio si legano direttamente al marmo con una tecnica giapponese antica, a incastro, che suggerisce continuità ed è frutto di grande perizia tecnica. La precisione geometrica delle piccole travi contrasta con le superfici irregolari e asimmetriche della base, secondo una necessità estetica tipicamente orientale; il biancore dell’abete che allude alla purezza sostituisce il più pregiato legno bianco del Giappone. Sugiyama esprime liberamente la sua passione per l’ossatura interna delle cose come quando, bambino, lo affascinavano più le strutture portanti, nude, che i modellini finiti. La pazienza certosina e la grande concentrazione necessarie in molte soluzioni tecniche complesse gli permettono di astrarsi dalla realtà quotidiana e di immergersi in un universo a se stante sospeso fra immaginazione e materialità. I santuari di Sugiyama, costruzioni che coniugano geometrie levigate e ruvida naturalezza, calcolo e casualità, proporzioni matematiche e libere asimmetrie, sono come mondi in miniatura che riproducono in piccolo profonde verità. Nell’impari rapporto dell’uomo con la natura, l’artista con modestia si inchina davanti all’infinito fluire dell’universo. Il tempo, che corrode e sgretola il legno come il marmo, nel suo scorrere ciclico agisce profondamente sulle cose, ricordando all’uomo che la sua opera è comunque solo una goccia nel mare della vita.

Monica Dematté è nata nel 1962 a Trento. Si è laureata presso il DAMS di Bologna (Indirizzo Artistico) e nel 1995 ha conseguito un dottorato in Storia dell’Arte dell’India e dell’Asia Orientale presso l’Università di Genova, con una tesi su “Arte Contemporanea Cinese 1989-1994”. Ha studiato cinese all’Università Sun Yat-Sen di Guangzhou e Storia dell’Arte Cinese all’Accademia di Belle Arti di Guangzhou. Nel 1996-97 ha lavorato presso il Singapore Art Museum in qualità di curatrice specializzata in arte cinese moderna. E’ professore a contratto presso l’Università di Venezia, Ca’ Foscari, e l’Università di Bologna. Ha contribuito ai cataloghi della 48esima e della 49esima Biennale di Venezia (1999) con numerosi saggi. Saggista e curatrice indipendente, ha pubblicato estesamente su riviste specializzate in arte contemporanea sia in Italia che in Cina.
 
Galleria Gagliardi - 2001: mostra personale "Isao Sugiyama" a cura di Monica Demattè