Comunicato Stampa

L'EQUILIBRIO DEGLI OPPOSTI di EROS BONAMINI
a cura di Marco Meneguzzo Istituto Italiano di Cultura in collaborazione con Galleria Gagliardi
dal 18/09/2009 al 18/12/2009

2009 - Galleria Gagliardi, Amburgo

L’equilibrio degli opposti

In arte, uno dei metodi più efficaci per mostrare qualcosa - una materia, un oggetto, un concetto, persino una storia - è quello di accostare elementi tra loro antitetici, polarità apparentemente inavvicinabili, eppure sorrette da un legame segreto, quello che, appunto, una volta stabilito esalta le caratteristiche dei singoli fattori. Alcuni esempi: il bianco e il nero, oppure il triangolo rosso che spezza il cerchio bianco del manifesto rivoluzionario di El Lissitzly, ma anche i Centauri e gli uomini delle metope del Partenone di Fidia - l’uomo e l’animale -, oppure il ratto di Proserpina di Bernini, dove le polarità si moltiplicano a dismisura - uomo/ donna, vecchiaia/giovinezza, bellezza/brutalità, desiderio/ripulsa, e così via... -. I casi sono innumerevoli, e quasi si potrebbe affermare che in ogni opera d’arte si ritrovano, nascosti o palesi, questi confronti, queste opposizioni: i modelli appena citati, ad esempio, mostrano volutamente una “scala” di complessità ascendente, dove nel primo - il bianco e il nero - l’opposizione non solo è chiaramente visibile, ma costituisce di fatto tutta l’essenza dell’accostamento, mentre nell’ultimo - Plutone e Proserpina - le opposizioni sono celate dietro la storia, la figura e dietro il loro stesso numero che, come abbiamo visto, si moltiplica e si complica, assumendo significati simbolici e visivi complessi.
Da artista, anche Eros Bonamini non sfugge – non vuole sfuggire - a questa costruzione, e anzi fa di questa il proprio ambito di ricerca principale. Cosa sono le sue Cronotopografie (il titolo che dà a tutti i suoi lavori, recenti e meno, e che assomiglia un po’ a un vezzo da avanguardia storica, con quella definizione tecno-filosofica che tira in ballo tempo, spazio e segno) se non la dimostrazione di relazioni segrete, portate alla luce grazie alla contrapposizione, al conflitto, alla “lotta degli opposti”? Una lastra d’acciaio specchiante - base di tutti i suoi Lavori - viene tagliata, segnata dalla fiamma ossidrica o dal laser con segni tanto semplici quanto antichi: la croce, la spirale, la linea, il cerchio...; la purezza della materia - cosa c’è di più puro, di più freddo di una materia che respinge, che riflette le immagini? - viene intaccata, distrutta, bruciata, da un’azione violenta, il cui risultato è una sorta di ferita slabbrata e corrosa sulla superficie di quella materia lucente; la compresenza di elementi tanto opposti tra di loro li potenzia invece di annullarli, li esalta invece di deprimerli.
In quella “scala” di complessità, di cui abbiamo parlato prima, l’azione artistica di Bonamini si colloca molto vicina alla base più semplice: pochi elementi in gioco, segni essenziali, nessuna narrazione che disturbi la percezione, scarsissima propensione alla simbolizzazione, massimo di chiarezza evidente, sono tutti fattori costitutivi coerenti tra loro, che portano diritto a una creazione connotata da estrema sicurezza concettuale e da precisa lucidità visiva. Che Bonamini venga dalla grande scuola dell’astrazione storica non v’è dubbio, ed altrettanto certo è che questa ascendenza è nobilmente rivendicata e non messa in discussione dall’artista: quel modello, per Bonamini, ha ancora molto da dire, anche senza ibridazioni linguistiche, sovrapposizioni metaforiche o “stampelle” narrative. La semplicità della forma riflette la chiarezza dell’assunto. Per questo, la sua ricerca si muove sempre a quel livello essenziale, dove talvolta si aggiunge un colore, uno sbalzo materico, un azzardo tridimensionale, ma dove non accade mai che la composizione finale voglia rendersi artificialmente più complicata, più oscura, più iniziatica. Tutto è evidente, è lì sulla superficie, ed è sempre e solo sulla superficie che si coagula tutto ciò che si vuole dire: paradossalmente, pur vivendo (ed essendo cosciente di questo) in un mondo dell’arte dove il contesto diventa sempre più importante, l’opera di Bonamini è tra quelle che hanno meno necessità di esso, e che pretendono che lo sguardo non divaghi lontano, ma venga sempre ricondotto sulla superficie, in un “qui e ora” assolutamente cogente. In questo senso, Bonamini riprende coerentemente quella “tradizione del nuovo” che ha liberato l’arte - e soprattutto la pittura: e quella di Bonamini la definirei proprio “pittura”, nonostante tutto (come definirei pittura tutta l'opera di Burri�) - da ogni sovrastruttura, che ha disceso gli scalini di una ipotetica “tavola degli elementi” artistica per raggiungere quegli elementi indivisibili che formano grammatica e sintassi del linguaggio pittorico, e di questi elementi - e solo di questi - ha fatto il nucleo costitutivo della Modernità. Così, nonostante un vago senso anacronistico in quella definizione di “Cronotopografie” (non viviamo più nella Modernità, ma in qualcosa che viene dopo di essa. . .), è indubbio che Bonamini abbia in quel termine centrato il problema attorno a cui si muove la sua opera, che non è, come si potrebbe credere di primo acchito, solo quello della materia (il “topos”, che è il “luogo", ma che potremmo anche tradurre con superficie), ma anche quello del gesto (“grafia”), e quindi del tempo (“crono”). La superficie materica conserva il segno, e quindi la memoria del tempo, di un “prima” dell’intervento, che vede la presenza distaccata dei soggetti del lavoro, quali la superficie, l’artista che manovra l’andamento della fiamma e il progetto che prevede un possibile effetto, di un “durante” che è letteralmente lacerante, e di un “dopo” che è il risultato, l’esito, l’opera. Con una simile concentrazione non c’è bisogno di altro, e si potrebbe anche arrivare a dire che questa compresenza di elementi sullo stesso piano (e qui per “piano” si intende sia il livello concettuale, ma anche letteralmente il piano della superficie) costringe a una continua ripetizione (del resto, Fontana aveva fatto lo stesso. . .), e che tuttavia questa ripetizione non è pleonastica, come sarebbe nel caso di un’opera d’arte concettuale, ma necessaria, perché è ogni volta formalmente “differente”. E per questo tipo di opere la forma è essenziale.

Marco Meneguzzo