Contributi

DENTRO, Boyer, De Biasio, Fasoli, Tagliaferro, Taricco, Ventrone
Alberto Agazzani

DENTRO

DENTRO L’IMMAGINE.

L’invenzione della camera ottica, diretta antenata del cinema e della fotografia, ha avuto un’influenza fondamentale nel modo di vedere e rappresentare la realtà, fino ad arrivare, nella nostra contemporaneità, a modificare radicalmente quel concetto di “metafisica” che per secoli ha sostenuto e alimentato l’anima della Pittura. A quale possibile “altrove” può condurre una rappresentazione pittorica del visibile così fedele da rasentare la rappresentazione fotografica? Quale metafisica è possibile da ciò? 
Il fenomeno è tutt’altro che nuovo, così come ben noto è il percorso che dal XV secolo ad oggi ha portato al cosiddetto “iperrealismo”. E’ nei primi decenni del ‘400, infatti, che per la prima volta vengono utilizzati strumenti ottici per la realizzazione di tele dipinte. Improvvisamente, senza gradualità alcuna, si passò da una rappresentazione ideale della realtà, ancora saldamente ancorata a canoni medioevali, ad una fortemente realistica portatrice di nuovi valori e nuovi misteri. Aprendo la strada ad un modo di vedere il mondo fino ad allora inedito e destinato a cambiare in maniera determinante l’intera storia dell’arte. Si può in un qualche modo affermare che in quel momento nacque un nuovo concetto di metafisica, destinato, alla luce della nostra modernità, a sfociare nella più parossistica espressione pittorica immaginabile, talmente estrema e rivoluzionaria da modificare il concetto stesso di “pittura”. Ritorniamo così alle domande che hanno aperto questo discorso: a quale possibile metafisica si riconduce quest’arte iperreale? Quali valori rivela e quali misteri crea una pittura nella quale tutto, anche se stessa, è rivelato con una verità stupefacente?
 
La risposta, complessa e tutt’altro che definitiva, a tratti anche apparentemente contraddittoria, può essere rintracciata nel nichilismo che domina la nostra epoca. Finite le ideologie, estinti ed esiliati dei ed eroi, sovvertiti i valori che per secoli avevano sostenuto la nostra cultura, è un altro “altrove” quello a cui l’arte si deve necessariamente rivolgere. Chi non ha speranza si è rapidamente convertito all’orrore ed al gioco circense della provocazione a tutti i costi (non rendendosi conto della terribile gratuità e vetustà della scelta), mentre coloro che la speranza l’hanno forte e vivida, tanti pittori e scultori animati da un’incrollabile fede nella Bellezza e nei suoi valori, hanno coscientemente scelto la strada di un realismo esasperato, di Un idealismo inedito, la via di una nuova metafisica, cinica ma appassionata, spesso glaciale ma sempre sorprendente, possibile ed impossibile nel contempo, fino ai limiti della prevedibile capacità umana (ed in totale opposizione allo storico concetto di “iperrealismo” americano). Un teatro della rappresentazione totalmente autoreferenziale, che indaga la Bellezza attraverso se stesso, e che, come in una messinscena barocca, si rivela per stupire, per abbacinare, per meravigliare, e lì, in quello scarto senza tempo dato dall’incontro con l’inatteso, insinuare il senso di un nuovo mistero, creare un’emozione senza nome che rapisce e incanta: nuove rivelazioni, nuovi misteri, una nuova metafisica del cinicamente autoreferenziale, portatrice di un nuovo, estremo, rivoluzionario concetto di “pittura”.

Effettivamente, riprendendo il filo di quanto già scritto in occasione di altre indagini sul fenomeno, il “Realismo”, inteso come una mera rappresentazione della realtà, in pittura non esiste. Né potrebbe esistere, essendo il dipingere essenzialmente, così come inteso nella sua secolare tradizione, un “fatto mentale”, per dirla con Leonardo, che partendo dalla realtà ci trasporta in una dimensione “altra”, (anche diversamente) metafisica per l’appunto, fuori da qualunque tempo e da qualunque spazio. La storia dell’arte tutta è un esempio di ciò. Dalle Veneri paleolitiche, la cui caricaturizzazione degli attributi sessuali era foriera di quel desiderio e di quel bisogno di fertilità ed abbondanza per loro vitali, fino ad oggi, ogni epoca della vicenda umana è stata caratterizzata da una visione della realtà figlia, insieme, di istinto e cultura e sempre lontana da un realismo meramente illustrativo. Non a caso l’immagine dipinta diventa, attraverso la pittura, segno-simbolo, icona portatrice di concetti e significati, mai la sterile rappresentazione di sé stessa. La storia della pittura, quindi la storia della rappresentazione, risulta perciò strettamente legata a quel fenomeno che oggi chiameremo “moda”, espressione e sintesi, in chiave più che mai contemporanea, di quei bisogni istintivi e di quegli ideali che stanno alla base di ogni creazione artistica. Si pensi solo a Piero della Francesca, a Michelangelo, allo stesso Caravaggio, a Rubens o a Picasso: in tutta la storia del mondo la realtà visibile è rimasta essenzialmente la medesima, con le sue forme e i suoi colori, ma la sua rappresentazione, sempre iconicamente riconoscibile, è cambiata, seguendo di volta in volta l’evolversi e il variare degli istinti e delle idee, in una parola seguendo i dettami della moda.

Diverso il discorso sull’Iperrealismo. Nato negli Stati Uniti nei primi anni ’60 del secolo scorso, in contrapposizione alla libertà stilistica totale dell’Action Painting e degli espressionisti astratti, l’Iperrealismo (definito come tale solo nel 1972 in occasione della sua “consacrazione” ufficiale a Kassel nel corso di Documenta 5), di contro, si pone come obiettivo l’annullamento del punto di vista del pittore nell’immagine dipinta. Se l’artista astratto distrugge l’icona per imporre la propria visione del mondo in maniera assolutistica, l’iperrealista si impone di rappresentarla con una precisione ed una fedeltà tali da trasfigurarla, da renderla più vera della verità sin nei suoi “inganni ottici” più complessi. E quindi ancora una volta in maniera non-realistica.

In Italia il fenomeno di questo realismo “cinico” (in quanto assolutamente autoreferenziale) ha assunto un’importanza capitale. Lontano dalla fredda e quasi meccanica ideologia dell’Iperrealismo americano, e contemporaneamente pregno della grande tradizione pittorica occidentale, l’”iperrealismo” italiano si è sviluppato con caratteri e peculiarità uniche e qui ben rappresentate dagli autori e dalle opere selezionate. Non una pittura ancorata alla metafisica dell’”altrove”, ma anzi profondamente indagatrice di sé stessa, della propria anima, del proprio “dentro”, e come tale riferibile solo alla propria anima ed alla propria idea.

In Italia il concetto di “Realismo cinico” è inevitabilmente associato al nome di Luciano Ventrone. L’approccio del pittore alla realtà appare, insieme, fra i più eccentrici e originali, italianissimo nel “calore del colore”, nel chiaro e costante riferimento al Barocco e nel suo essere scevro da quella componente “pop” così tipica in questo genere di pittura, soprattutto in quella di matrice statunitense. L’inganno visivo, inteso come anamorfosi o trompe l’oeil, trova in Ventrone un magistrale interprete d’oggi. Talmente unico e talmente profondo nell’invenzione visiva e tecnica da segnare un punto di non ritorno nell’intera storia della rappresentazione pittorica della cosiddetta “natura morta”; una lezione, quella di Ventrone, alla quale ha guardato e guardano buona parte dei pittori “iperrealisti” d’oggi, arrivando a dar origine ad un’autentica corrente artistica che individua in lui un caposcuola d’assoluta eccezionalità.
Mentre in Ventrone l’astrazione ultrareale si realizza con freddezza e distacco ideali, in Michele Taricco, al tro storico quanto appartato protagonista di questo genere, è il calore del divenire a far da protagonista. Il suo sguardo, pur lucido ai silenzi del passato, non rinuncia a rimanere scrutatore attento del proprio tempo. A differenza di altri, quando inventa di volta in volta immagini legate alla realtà, propende per un’invenzione autoreferenziale del visibile in chiave poeticamente lirica, poetica, a tratti sin quasi volutamente descrittiva; nel gestire il proprio straordinario dominio tecnico non si compiace mai di sé stesso, accetta la sfida di una costante e mai manierata ricerca: l’inseguimento impossibile di una verità sfuggente, vista con gli occhi indagatori di un osservatore infaticabile, capace di chiudere nel quadrato magico di una tela l’espressione di sensazioni e colori, atmosfere e silenzi, sospensioni e bellezze di grande ed inesorabile magia.
Pochi pittori (e disegnatori) italiani possono vantare un atteggiamento etico ed un rigore analitico e com-positivo così magistrali come Andrea Boyer. La sua passione per la fotografia (intesa come scrittura della luce, mai solo come esercizio espressivo) ed il suo possesso in chiave tecnica di quello strumento, gli hanno consentito di sviluppare un’idea di “pittura” che trova ben pochi emuli, sia sul piano concettuale che su quello più squisitamente tecnico. L’iperrealismo di Boyer, infatti, è sempre e solo apparente. “A che serve dipingere una fotografia quando esiste già come tale?” (si) domanda il pittore quando viene accusato d’essere eccessivamente realista. Ed a ragione, perché pochi come e quanto lui hanno amato, amano e conoscono quella nuova Musa, così prepotentemente protagonista, ineludibile, dell’arte del Novecento tutta e tutto. Ed è proprio dal possesso assoluto di quella tecnica e dalla padronanza delle sue potenzialità che nasce in Boyer il desiderio di sfidare il visibile oltre i suoi oggettivi confini. Ecco allora che il disegno e la pittura offrono al fotografo la via di fuga dai recinti del visibile, per proiettare quelle stesse immagini e quegli stessi soggetti in un universo solo e sempre mentale. Il chiaroscuro esasperato, con quell’inseguirsi dei bianchi e dei neri assoluti, dalle più accecanti luci alle ombre le più cupe, è lo strumento, più mentale che reale, per trasportare la realtà visibile in una dimensione nella quale il pensiero si fa forma, il tempo spazio. Misticismo? Neopositivismo? O addirittura una sorta di Neoilluminismo nell’epoca del più buio relativismo ad ogni costo?
David De Biasio, la cui discendenza dalla lezione ventroniana è suggerita nel severo approccio e nella fede incondizionata verso l’invenzione straniata e straniante della “natura morta”, porta su un piano lucidamente lirico la siderea lezione del maestro. Puro creatore d’immagini nelle quali la poesia degli oggetti e la bellezza delle composizioni, armonicamente definite e rese incantate da scelte cromatiche sensibilissime, dominano, creandolo, qualunque subitaneo stupore. De Biasio, che ha lungamente vissuto negli Stati Uniti ed ha respirato in prima persona il clima “pop” di un certo iperrealismo storico (e là manierato), reagisce al nichilismo contemporaneo ed alla conseguente afasia visiva da esso indotta attraverso una pittura lenta e silenziosa, violenta nel suo bisbigliare armonia, magica nella sua sospensione: con costanza sembra guidare il pennello alla ricerca di quell’impercettibile silenzio dell’anima che solo un’incrollabile fede nella Bellezza e nel potere della pittura possono realizzare. Il “dentro” di De Biasio è quello ossessivo, quasi autistico, delle “semplici” forme elementari della natura, minerale e vegetale. Un’indagine introspettiva all’ascolto del cuore segreto che solo la pittura può rivelare dentro l’inanimato, e spesso invisibile, mondo che ci circonda.
Marica Fasoli è una pittrice dall’estremo potere seduttivo e dall’altrettanto tenace capacità astrattiva. Le sue nature morte si allontanano drasticamente dal consueto concetto di tale genere, introducendosi nel fascinoso mondo, morbido e aereo, dei panneggi. Privando i corpi di ogni materialità e fisicità apparente, Fasoli non ne nega la sensualità: in un gioco più surreale che metafisico, magrittiano nella teatralità dell’equivoco, veniamo condotti in un mondo ricco di sentimenti ed emozioni e sempre denso di sensualità evocate. L’autoreferenzialità della ricerca “dentro” l’immagine e la pittura è accentuata con scelte estreme e d’estrema efficacia, come quella di privare le sue camicie della corporalità che le sostiene ed anima. Anche qui si assiste ad un dominio totale del “fare” pittorico, con l’invenzione felice di spazi senza tempo e senza confini, come in una sorta di teatro nel teatro, ma senza attori né protagonisti che non siano quelli evocati, creati e ri-creati dall’immaginazione dell’osservatore. La scelta stessa di una tavolozza neutra, cromaticamente ai confini della neutralità, serve a disvelare sensualità inattese, vibrazioni vivide, silenzi rapiti ad attimi senza storia.
Il giovane Paolo Tagliaferro trasforma il suo fresco sguardo in immagini evocative di paradisi mai perduti. L’assunto di una fedeltà maniacale al visibile, nelle sue tele si trasforma in un giocoso divertimento per gli occhi, lontano da qualunque inquietudine ed espressionismo manifesto. Il mondo dell’infanzia è evocato con libertà: il colore è abbagliante, la luce è resa con effetti sorprendenti e i contrappunti formali, dal dettaglio esasperatamente fotografico al gioco astratto dei riflessi, realizzati con la coraggiosa audacia di una pura spregiudicatezza giovanile. A differenza di molti suoi colleghi, infatti, Tagliaferro manifesta una serena e disincantata espressività, giocosa per l’appunto, scevra da quei turbamenti e da quelle introversioni così tipiche in tanta pittura d’oggi, allegra e serena, “pop” in un qualche modo, ma non altrettanto leggera, bensì stupefacente nell’evocativo divertimento fra severità pittorica e allegria espressa nell’immergersi dentro ad immagini che ognuno di noi porta nel proprio ricordo dimenticato.

Galleria Gagliardi - 2009: Mostra collettiva "Dentro"; artisti: Taricco, Boyer, Fasoli, De Biasio, Tagliaferro; testo critico di Alberto Agazzani