Contributi

MEMORIE STRAPPATE, MICHELE TARICCO
Alberto Agazzani

MEMORIE STRAPPATE

L'invenzione della modernità.
Non esiste opera d'arte senza ideologia, senza un sistema ordinato di idee che ne sostengono la creazione. Qualunque rappresentazione artistica è la manifestazione di un punto di vista, di una visione, di un'interpretazione del visibile che è, insieme, frutto di un'idea e di un pensiero ordinato.Il concetto, dunque, è l'anima dell'opera d'arte stessa, è l'opera d'arte medesima, della quale le forme ed i colori impressi su una tela non sono che una delle tante sue possibili espressioni. Ciò rappresenta i due poli attraverso i quali l'arte, quindi l'ideologia che la sottende, sin dalle sue origini agli albori della nostra civiltà, ha oscillato: istinto e ragione. Erano lontane da qualunque imitazione della realtà, e quindi da qualunque osservazione analitica del visibile, le istintive Veneri paleolitiche che i nostri antenati, ancora erranti, scolpivano nell'avorio o nella pietra 40.000 anni prima della nascita di Cristo. Così come frutto di un'osservazione acutissima della realtà, portata fino all'estrema conseguenza di un'idealità talmente assoluta da risultare impossibile in Natura (vedasi l'esempio supremo delle anatomie improbabili dei Bronzi di Riace), era concepita la scultura nell'antica Grecia, momento nel quale, dimenticato ogni istinto, fu l'ideologia a stabilire con crescente potenza l'ordine e le forme del Creato. Invenzione e mimesi, dunque, come poli opposti ma non contrapposti, dell'intera storia dell'arte occidentale. Ogni fenomeno artistico, dall'antichità ai nostri giorni, è inquadrabile in questo curioso intreccio d’ imitazione della realtà, anche la più bassa, e sublimazione inventiva della medesima. E sia pure con temperature e forme diverse, la storia delle ideologie artistiche della nostra contemporaneità postavanguardista appaiono come pallidi riflessi di un dejà vù tutto solo da svelare. Così si può scoprire che il Surrealismo, frutto di una concezione totalmente mentale del mondo, ha avuto i suoi epigoni, se non prima, addirittura alla metà del XV secolo, allorché, ad immediato esempio, un Ercole Dè Roberti s'inventa, per l'estense Borso, le città volanti di Schifanoia (per non parlare delle altrettanto surreali invenzioni letterarie, coeve, dell'Ariosto). E come non ritrovare, nella serialità dell'immagine, nell'intento di comunicazione globale e nella sua pretesa popolarità, un epigono della Pop Art addirittura nell'antica Roma, con le effigi dell'imperatore, la pop-star per eccellenza del suo tempo, riproposte in ogni modo e misura, dalle monumentali statue sparpagliate in ogni angolo dell'Impero fino addirittura alle più minuscole monete (Andy Warhol non ha mai nascosto la sua concezione di opera d'arte come “macchina per fabbricare denaro”)? Di pari anche il realismo fotografico di una certa pittura americana della fine degli anni '60, il cosiddetto Fotorealismo, ha trovato antenati concettualmente non troppo dissimili nelle Fiandre del primo '400, senza bisogno d'attendere il Leonardo un secolo dopo1. Ma ciò che differenzia il Surrealismo, la Pop Art o il Fotorealismo dai loro lontani epigoni non è la forma espressiva sostanzialmente identica, ma la carica ideologica, il pensiero organizzato, l'impianto culturale. A questo punto appaiono chiare le più volte citate parole di Arturo Martini: “La modernità non è una trovata, ma lo scoprire nuovamente l'anima delle cose, con l'intensità che circola nell'aria del proprio tempo; è la traduzione della perenne realtà del mondo in un linguaggio poetico che sia del nostro tempo”2. Fuori da qualunque prevedibile schema, ma esempio di pittore che ha saputo per oltre cinquant'anni tradurre la “perenne realtà del mondo” in un linguaggio sempre attuale, è evidentemente Michele Taricco, al quale nessuna etichetta, se non quella di pittore tout-court, può adattarsi con esaustiva facilità. A proposito della sua pittura, a primo esempio, si è spesso, troppo spesso parlato di “Fotorealismo” o “Iperrealismo”. Una definizione che assomiglia ad una trovata, per tornare a Martini, che coglie solo parzialmente un aspetto della complessa e mobile espressività di Taricco; un'espressività ed una poetica del reale, altrimenti ricche di sfumature e rimandi, mai e non solo assimilabili ad un concetto così ben stabilito. Sul fatto che Michele Taricco sia stato fra i primissimi in Italia (e quindi in Europa) a adottare nella sua pittura un'ideologia fotorealista di stampo statunitense è un dato di fatto ormai acclarato ed evidente. Così come un precedente non trascurabile è la sua originaria fascinazione per il Surrealismo: due opposti elementi che però rimarranno costanti in tutta la sua lunga carriera, definendone lo stile e caratterizzandone lo sviluppo poetico ed espressivo. Non è questa la sede per un'analisi dettagliata dell'intero excursus pittorico di Taricco, ma ciò che appare evidente nella sua ultracinquantennale carriera è una fedeltà assoluta a se stesso; una fede ed un'autonomia intellettuale e poetica che lo hanno portato a riconoscimenti crescenti e globali (dagli esordi ad ArtBasel fino alle pareti di collezionisti in tutto il mondo), ma soprattutto ad un approdo alla soglia degli oltre 80 anni totalmente sorprendente, carico com'è di un'energia, di una lucidità retinica ed intellettuale, nonché di una resistenza fisica, davvero fenomenali. Le opere più recenti di Taricco sono riconducibili ad una serie di “strappi”, soggetti che il pittore aveva già felicemente affrontato nella prima metà degli anni '70 e che oggi reinventa definendo ulteriormente la sua poetica ed il suo rapporto, mai interrotto ma sempre reinterpretato, col Fotorealismo americano. A questo punto pare importante ricordare brevemente quale impianto ideologico stette all'origine di questo movimento statunitense, nato come naturale derivazione della più vasta Pop Art. Il clima culturale degli Stati Uniti all'inizio degli anni '60 del secolo scorso, quando la Pop Art approdò oltre oceano dalla Gran Bretagna, era caratterizzato da una supremazia del cosiddetto “Espressionismo Astratto”, al cui eccessivo concettualismo ed intellettualità s’intendeva contrapporre un'arte immediatamente riconoscibile e riferita alla riconoscibile realtà del quotidiano. L'estremo rigore formale di una pittura talmente dettagliata da confondersi con la fotografia s'opponeva alla libertà gestuale degli astrattisti ed il riferirsi a situazioni, icone, immagini e status symbol del “sogno americano” fugavano qualunque tentazione eccessivamente intellettualistica. In Italia, e più in esteso nell’antico continente, la situazione storica, politica ed emotiva entro la quale il Fotorealismo americano s'incuneò, era di tutt’altro genere; non fosse altro per il peso di una storia enormemente più pressante oltre che per l'imprescindibile rapporto che il nostro occidente ha intrattenuto, ed intratteneva, con la grande tradizione pittorica europea. Quando nel 1972 il Fotorealismo americano approdò ufficialmente in Europa, nella tanto discussa “Dokumenta5” di Kassel curata da Harald Szeemann, questo trovò subitaneamente in Michele Taricco, felicemente sostenuto dall'intelligente lungimiranza e dalla sensibilità di Georges Kasper, un discepolo entusiasta. La dimensione Pop dei soggetti cari agli avanguardisti americani (scorci metropolitani, automobili e motociclette sfavillanti, loghi ed icone della società dei consumi, star e personaggi del cinema), però, poco si adattavano ad un'Europa già uscita (anche emotivamente) dal secondo dopoguerra e tendenzialmente più propensa ad un intimismo ed un lirismo totalmente in contrasto col “Cool realism” d'oltreoceano. Taricco, proveniente come accennato da una pittura di segno surrealista, si trova quindi fra i primissimi ad interpretare le inedite istanze della nuova arte, inserendovi, ed è qui che sta la differenza che rende il Nostro un autentico protagonista di quella stagione, un afflato poetico, e quindi inventivo, di grande originalità e forza espressiva. Il pittore affronterà sì tante immagini del suo universo visivo “pop” (automobili, treni, scorci urbani, nature morte), ma mai rinunciando al proprio sentimento e, soprattutto, al potere evocativo della pittura. Scaturiscono così dipinti dal realismo estremo, fotografico per la precisione del dettaglio e l'inganno virtuosistico del trompe l'oeil, ma non saranno mai immagini “cool”, fredde, asettiche e afasiche, come gli statunitensi si prefiggevano di ottenere. Il ritorno di Taricco agli “strappi” dei suoi anni '70 pare soprattutto una riflessione, quasi quarant'anni dopo, su cosa abbiano significato per lui quella stagione, quei valori e quelle ideologie. Se nel turbine di quegli anni, infatti, lo strappo rappresentava per Mimmo Rotella lo specchio di una società lacerata e fuggevole, per Taricco parevano più immagini di un “pop” reale e metropolitano; strane figure dettate dal caso, alchimie di colori, ombre e luci di ordinaria e quotidiana familiarità, trasformati in icone dalla bellezza trasfigurata attraverso la magia della pittura. Ed ecco negarsi l'assunto americano del Fotorealismo, secondo il quale il pittore avrebbe dovuto rappresentare il visibile tale e quale veniva colto dall'obiettivo fotografico. Nell'approdare a questa convincentissima sublimazione della  realtà, talmente tale da confondersi con essa, Taricco, oggi più che mai, manifesta l'essenza più antica e più complessa della pittura: un equilibrio misterioso, quasi magico, tanto sfuggente quanto percettibile tra realtà ed invenzione. La sintesi altrimenti impossibile fra due opposti. Se osserviamo gli “strappi” odierni di Taricco (al pari di ogni soggetto da lui rappresentato), non vediamo più il compiaciuto desiderio di stupire, il manierismo originale e arrogantemente strabiliante della sua prima giovinezza ma quella tendenza all'inganno ottico, appunto, che scaturiva già da un entusiasmo che dominava su un'espressività certamente ricca di lirismo. Tra tutti i dipinti, quelli di ieri e quelli di oggi, ma soprattutto in questi, retinicamente memorabili “strappi”, vi è stata la crescita, l'evoluzione e la maturità espressiva di un artista che ha dipinto per tutta la vita, facendo coincidere il suo tempo con quello della sua pittura. La tenzone al superarsi tecnicamente si è fusa col sentimento, con il calore, con l'invenzione. Dalla rappresentazione impossibile dell'invenzione surreale Taricco si catapultò nella realtà più visibile per poi, nel corso di quarant'anni,  riconquistare nuovamente la meraviglia dell'invenzione e, primariamente, alla presa di coscienza di quella modernità che non appartiene ad un'ideologia precostituita ma che, unica ed inimitabile, scaturisce dalla sua sensibilità, dalla sua storia e, soprattutto, dalla sua vita.
 
Galleria Gagliardi - 2011: mostra personale "Memorie Strappate" di Michele Taricco a cura di Alberto Agazzani
 
1    per questa ed altre questioni relative la scoperta e l'utilizzo di strumenti ottici nella realizzazione di dipinti si veda il saggio di Hockney, David, Il segreto svelato. Tecniche e capolavori dei maestri antichi, tr. it. di Margherita Zizi, Mondadori Electa, Milano 2002
2   In De Micheli, Mario, La fuga degli Dei, Edizioni Vangelista, Milano 1989