Comunicato Stampa

MESSAGE IN A BOX di MARICA FASOLI
a cura di Luca Beatrice in collaborazione con Galleria Gagliardi Fondazione Luciana Matalon
dal 29/09/2010 al 22/10/2010

2010 - Galleria Gagliardi, Milano

Luca Beatrice

MESSAGE IN A BOX

Ma in realtà quello che stava accadendo, tra mille difficoltà e incertezze, era che, abolita la profondità, il senso si stava spostando ad abitare la superficie delle evidenze e delle cose. Non spariva, si spostava. La reinvenzione della superficialità come luogo del senso è una delle imprese che abbiamo compiuto: un lavoretto d'artigianato spirituale che passerà alla storia.

Alessandro Baricco, I nuovi barbari

Arte e artigianato sono sempre andate a braccetto. Il principio del fare, la manualità insita all’atto creativo ha contraddistinto i grandi maestri della storia. Tuttavia, chiamare in causa artigiani, come operai a pagamento per mettere in pratica l’idea, è stato l’atto più rivoluzionario in seno all’arte concettuale che ha spostato l’asse dall’oggetto all’idea. E ancora di maestri si può parlare: da Marcel Duchamp a Donald Judd, da Jeff Koons fino a Damien Hirst. L’artista, con loro, è diventato il detentore dell’idea e non per forza del suo farsi; ad altri il compito di darle forma pratica come in un qualsiasi processo industriale. Accade nel design e nell’architettura, così è successo nell’arte affievolendo il concetto di opera “originale”.

Forte di quest’assunto, Andy Warhol ha messo in piedi, a partire dal 1964, la sua Factory artistica. L’azione più irriverente, tra le tante esibite dal genio dell’arte pop, è destituire il valore dell’opera  come atto di mimesi estetica. I soggetti dei suoi lavori diventano quelli comuni della società dei consumi - bottiglie di Coca Cola, frigoriferi, scatoloni, oggetti da supermercato – e nulla più. Le sue “copie” di Campbell’s Soup e Brillo Boxes, perfettamente eseguite, chiedono allo spettatore colto uno slittamento semantico, dal contenuto al contenitore. Nessun produttore commerciale rivendica l’originalità del brand dell’oggetto, a tutti gli effetti identico a un prodotto di mercato. “Chi, prima degli artisti pop, avrebbe mai pensato di usare delle scatole di cartone per fare una scultura?”1

Le Brillo di Warhol non si limitano al ready-made duchampiano: le sue sono copie ben fatte – in legno – dipinte e serigrafate “delle fotografie tridimensionali dei prodotti originali”, dove anche le “imperfezioni” fanno parte dell’environment  uguale in tutto a un procedimento industriale. Non revisione ma riproduzione meccanica. È il processo a sottoporsi a ready-made, non più l’oggetto.

“Dati due oggetti che sembrano identici, com’è possibile che uno sia un’opera d’arte e l’altro soltanto un oggetto qualunque?”2; l’attenzione deve necessariamente spostarsi  nell’azione e non nel risultato. O meglio, è il risultato a dare senso alla frattura estetica: un oggetto comune, la sua apparente superficie, il suo marchio, il suo essere quotidiano è l’unica e volontaria ragione per introdurlo, con un atto di violenza storica, nell’harem della produzione artistica. 

 “Andy, la tua arte non può essere considerata una scultura originale. Sei d’accordo?”

“Si”

“Perché?”

“Perché non è originale.”

“Quindi hai semplicemente copiato un oggetto comune?”

“Si”3

(1 - 2 - 3 Arthur C. Danto, Andy Warhol, Einaudi, 2009)

La pittura simula il reale o è il reale a simulare il gesto pittorico? Difficile scovare il limite tra l’oggetto e il metodo della sua rappresentazione. Soprattutto quando la pittura si contamina a tal punto da non riuscire a distinguere percettivamente tra illusione e realtà. Vantando una manualità eccellente che non necessita di assistenze, la giovane Marica Fasoli ha messo in piedi la sua Factory autogestita. Un mix di Pop Art e Iperrealismo, di pittura tout court e minimalismo oggettuale. Nelle sue opere utilizza soggetti riconoscibili - il cartone ondulato da imballaggio e il suo contenuto, vero o finto che sia -  per interpretare l’inganno dell’arte.

Il concetto di mimesi – imitazione – introdotto da Platone come fondamento dell’estetica classica è messo fuori gioco. Lo scopo ultimo dell’arte è di svelare la sua essenza. Poco importa se le biciclette racchiuse in quelle scatole siano abilmente dipinte o inserimenti fisici di prodotti di massa decontestualizzati. Così come sostiene il critico e filosofo americano Arthur Danto, guardando alle esperienze della Pop Art e dell’arte concettuale degli anni Sessanta e Settanta, la natura della rappresentazione perviene a se stessa.

Mentre negli States, Warhol presenta le scatole Brillo, in Europa si assiste al rovesciamento dell’idea canonica di pittura. Gli strumenti del fare artistico sono depauperati della loro funzionalità non esibita ma indotta da un gesto paradossale. Giulio Paolini, in Italia, esporrà poco dopo telai rovesciati, tele bianche, pennelli appoggiati nell’angolo delle sale. La superficie riflette sul senso e non è più mero supporto della rappresentazione.

È il progressivo spostamento del limite della figurazione del vero che, raggiunto il suo  più alto livello di descrizione, reitera l’illusione, la “copia della copia” platonica, a un puro fatto concettuale.

Nella pittura di Marica Fasoli l’inganno della riproduzione è la drammaturgia delle apparenze messa in scena sulla superficie della tela. L’oggetto in essa si confonde per mezzo di una tecnica superillusionista che trova le sue matrici pittoriche nell’Iperrealismo americano di Richard Estes, Chuck Close e dei più recenti Anthony Brunelli e Robert Gniewek. Senza alcun effetto speciale da cinema 3D questi artisti hanno anticipato di un ventennio la parcellizzazione dell’immagine apportata dal digitale. Così Marica Fasoli esplora le possibilità dell’iperrealismo e la virtualità dell’immagine dipinta; la sua sintesi formale mischia bidimensionale e tridimensionale, pittura e scultura, rappresentazione e realtà. La tela acquista o perde peso insieme alla gravità fittizia dell’oggetto in essa contenuto.

(…) la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio.

(Italo Calvino, Lezioni americane)

Il nostro approccio con il mondo passa attraverso la superficie delle cose: vediamo attraverso la lente dell’involucro e dell’imballaggio.

Siamo consumatori innanzitutto di segni prima ancora che di contenuti. La cultura visiva – pubblicità, grafica, comunicazione - è rimasta sedotta dall’immagine e così anche l’arte. Una pittura che guarda alla superficie non è per forza di cose superficiale e, se lo è, l’accezione può non essere negativa.

Alessandro Baricco di recente ha scritto un articolo, per la serie fortunata dei Nuovi barbari, dove immagine come sarà l’estetica del futuro. Un testo utilizzato quale stimolo dal curatore del Padiglione Italia alla Biennale d’Architettura del 2010, e che affonta il problema della superficialità. Uno dei traumi cui la mutazione ci ha sottoposto –scrive- è proprio il trovarsi a vivere in un mondo privo di una dimensione a cui eravamo abituati, quella della profondità. Ricordo che in un primo momento le menti più avvedute avevano interpretato questa curiosa condizione come un sintomo di decadenza: registravano, non a torto, la sparizione improvvisa di una buona metà del mondo che conoscevano: oltretutto, quella che veramente contava, che conteneva il tesoro. Da qui l'istintiva inclinazione a interpretare gli eventi in termini apocalittici: l'invasione di un'orda barbarica che non disponendo del concetto di profondità stava ridisponendo il mondo nell'unica residua dimensione di cui era capace, la superficialità. Con conseguente dispersione disastrosa di senso, di bellezza, di significati - di vita. Non era un modo idiota di leggere le cose, ma ora sappiamo con una certa esattezza che era un modo miope: scambiava l'abolizione della profondità con l'abolizione del senso. Baricco ci conduce alla presa di coscienza: la condanna alla superficialità è immorale e anacronistica; corriamo nel mondo dell’apparenza, ci nutriamo e ci riproduciamo alla luce delle immagini che ci rappresentano. La superficie è il primo punto di contatto, è l’interfaccia del mondo.

Marica Fasoli è figlia degli anni Novanta, non solo di una società dello spettacolo e dei consumi, ma di un’era che ha deviato inesorabilmente il suo immaginario materializzando la superficialità dell’oggetto, qualsiasi esso sia, ora alla portata di tutti. Come molti artisti, dalla fine degli anni Cinquanta fino ad oggi (si pensi agli imballaggi nobili di Tom Sachs e al gioco grafico della pittura di Antonio De Pascale), Fasoli si è innamorata del packaging, del potere connesso alle sue pseudoconfezioni, trucco come altri, per giocare con la finzione dell’apparenza. Superficialità non vuol dire leggerezza, e leggerezza non vuol dire assenza di contenuto. Sulla superficie si depositano le proiezioni dei nostri desideri, la superficie è l’involucro che separa quello che siamo da quello che possiamo decidere di essere. Packaging più che desiderabili indirizzano le nostre aspettative.

Gli imballi, mezzi aperti, di Fasoli sono l’intersezione di più esigenze, quelle di consumatori voraci di pittura (alla ricerca dello svelamento tecnico), della società dell’apparenza e di un bisogno umano di realtà (meglio, di contenuto). Nei suoi dipinti l’iperrealismo si apre a forme inedite di concettualizzazione. I quadri non nascondono, piuttosto svelano l’inganno mimetico. Contenuto e superficie a confondersi.

In ogni caso, “handle with care”, maneggiare con cura: l’incontro con la pittura è insolito e non garantisce la sicurezza di ciò che crediamo di riconoscere.