Comunicato Stampa

NEL VENTRE ANTICO DEL PALAZZO Esercizi di Guerra e Giostre di Bimbi di PAOLO STACCIOLI
A cura di Antonio Natali
dal 10 Luglio 2021 al 5 Agosto 2021

2021 - Galleria Gagliardi, Firenze, Palazzo Vecchio - Sala D'arme

NEL VENTRE ANTICO DEL PALAZZO
Esercizi di Guerra e Giostre di Bimbi
Mostra e testo a cura di Antonio Natali
Nelle sale severe dalle pareti e dalle volte tutte in cotto dei Magazzini del Sale, poste su due livelli sotto il Palazzo Pubblico di Siena, Paolo Staccioli schierò nel 2019 i suoi guerrieri antichi – fanti e cavalieri – come fossero manipoli di uomini pronti a uno scontro che di lì a poco sarebbe scoppiato in Piazza del Campo, sotto lo sguardo di gente curiosa, affacciata a finestre e terrazze di quell’anfiteatro metafisico. 
Oggi quella disposizione e quell’attesa si ricreano nell’ampia e parimenti austera Sala d’Arme di Palazzo Vecchio, ventre antico d’un edificio ch’è sempre stato dimora del governo cittadino. E di nuovo vien di figurarsi i guerrieri di Staccioli sotto le volte, ora alte e larghe, dell’unico ambiente. Guerrieri che, dopo il rito della vestitura d’armi, si preparano (alla stregua di gladiatori in attesa d’entrare nell’arena) a un allineamento geometrico, che si dipani sotto lo sguardo vigile dei Signori sui palchi della Loggia dei Lanzi. Sarebbe di lirica suggestione, nell’epoca odierna (ch’è dell’oro per le istallazioni), sorvolare con lo sguardo questa legione di militi silenziosi e immoti, disposti in rigorosa  simmetria di rimpetto a Palazzo Vecchio. 
Quei guerrieri, di complessione solida, compatti come se la corazza si fosse incarnata nei loro corpi rendendoli invulnerabili, sono della stessa genìa dell’armigero di Capestrano; ma di lui – se possibile – ancor più primitivi. Corazze senza snodi; quasi che gli arti ne possano spuntare come dal guscio d’una bezzuga. Al loro cospetto ho spesso coltivato la fantasia di vederne decine, irreggimentati come l’esercito cinese di terracotta. E mi sono immaginato il loro schieramento, fitto di presenze tutte eguali, disposte in un lungo corteo silenzioso, non già a simboleggiare (come in Oriente) la difesa strenua dell’imperatore anche oltre la morte, bensì a evocare un’umanità che si schiera per proteggersi – stavolta – dall’omologazione imposta dal regime informatico, ultimo despota. Un’umanità che, forte d’una coscienza storica salda, non teme il nuovo, ma la violenza invadente e prepotente d’un nuovo che fa terra bruciata dietro di sé.
Nelle creazioni di Staccioli l’antico e la tradizione seguitano a proporsi come modelli; non già per via di sentimenti nostalgici, bensì in virtù della convinzione che il passato, quand’è lirico e cólto, pur sempre resta esemplare; indispensabile a vivere consapevolmente la stagione che c’è toccata. Vigili come sentinelle, i “guerrieri” (ormai continuo a chiamarli così) da lui plasmati non s’oppongono ai tempi nuovi; sorvegliano però che la nobiltà trascorsa non venga dimenticata o irrisa addirittura. La loro militanza sarà utile per le generazioni giovani, cui la memoria dell’antico dovrà suonare quale magistero amabile e non tedioso, come invece una formazione scolastica senza più passione glielo fa avvertire.
E ancora una volta – ora come a Siena due anni fa – il luogo dell’esposizione invita a calare il ragionamento sul passato e sul presente: sul passato d’un edificio della più nobile civiltà medievale e sul presente di creazioni attuali, non immemori della cultura antica. Antico e moderno insieme, a pari dignità, senza primati. Laddove però la modernità s’arrocchi nell’intransigenza e si cinga di baluardi, a tutela arcigna d’una sua assoluta signoria, l’aulica tradizione avrà diritto d’espugnarne la roccaforte. Ed è – questa – una metafora che spontanea aggalla quando lo sguardo si distolga dai guerrieri ieratici e si volga al cavallo sulle ruote: icona a mezza via fra l’astrazione sintetica dell’austerità etrusca e la gravità elegante delle figure di Marino. 
L’immagine del cavallo sulle ruote evocherà infatti lo stratagemma architettato da Ulisse per vincere la resistenza troiana. Verrebbe, anzi, di dire che di quell’espediente astuto può assurgere financo a simbolo. E sulla scia di questo sogno mitico ci s’immaginerà un drappello di quell’esercito d’uomini d’arme, solidi e severi, che nella fortificata cittadella popolata di creature digitali s’insinui celandosi nel ventre del simulacro monumentale d’un cavallo, cui le ruote hanno consentito di varcar la soglia dell’arce; magari, anzi, spinto dentro – come nella vicenda omerica – da chi poi n’avrebbe patite le conseguenze. Rivalsa dell’antico sull’arroganza 2.0.
A Palazzo Vecchio, però, rispetto a Palazzo Pubblico di Siena non ci saranno solo evocazioni d’esercizi di guerra e preparativi di scontri armati. Nella Sala d’Arme i guerrieri di Staccioli – figure veridiche eppure astratte, tornite e levigate, austere anche quando le raffinano decori eleganti e colorati e perfino con qualche bagliore dorato – paiono tornare ai primordi della loro stessa invenzione, recuperando un significato che forse è sempre stato sotteso alla loro sembianza medesima. 
Fin dall’inizio del percorso ci si chiederà infatti se sotto la loro scorza non corra lo spirito della saga, della leggenda ch’è prossima alla fiaba e financo al gioco. Se ne troverà un segno guardando la figura d’un centauro, che, a dispetto della sua natura per metà ferina, si offre mite e docile addirittura. Non ha con sé né l’arco con le frecce, né tanto meno la clava. Ha le braccia abbandonate lungo il torso umano e con la sinistra tiene (in basso, però) uno scudo, ch’è evocativo più d’una difesa da giostra cavalleresca che d’un assalto, ch’è quanto viceversa ci s’aspetterebbe da un centauro. E vien di leggerlo alla stregua di un’allegoria. L’allegoria di un’indole forte, ma pacifica e buona. 
E, seguitando il tragitto espositivo, quel quesito iniziale parrà avvalorarsi al cospetto d’un piccolo carro di bronzo con tre figure ritte, come fossero partecipi d’una parata militare allestita tuttavia per una festa di popolo; festa che subito dopo assume ancor più leggerezza per via dell’immagine felliniana d’un dondolo di ferro ossidato su cui altalenano due personaggi adulti di lucido bronzo. E di bronzo lucente è la figura femminile, allampanata e ieratica, che, seduta su uno sgabello alto, ciondola le gambe e tiene d’occhio una confusa stesa di sfere colorate di ceramica, rimaste sparpagliate lì, finito il gioco. 
Di nuovo il gioco; ch’è l’attività votata alla ricreazione, all’assenza di pensieri, allo svago; e dunque riguarda tutte l’età dell’uomo. Di sicuro però è quella principe dell’infanzia; stagione in cui è ben viva l’aspirazione a godere del proprio tempo nella serenità di relazioni d’amore. Il gioco allora si fa evocativo di tutto quanto favorisca la concordia e l’armonia e s’opponga ai mali della guerra; ch’è ammissibile soltanto quando essa stessa non sia altro che un gioco. Ecco allora che nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio il percorso di Staccioli si chiude con una scena messa a contraltare del suo esordio, ch’è costellato di cavalieri armati e di guerrieri. Uno di questi, bronzeo, col busto finemente loricato, s’erge in mezzo a uno stuolo di bimbi di ceramica bianca, ognuno con un attributo iconografico che n’identifica appunto l’età: ora una palla, ora un cavallino sulle ruote, ora una cartella di scuola come una volta usava. L’infanzia assedia il guerriero, che peraltro di suo s’è fatto mansueto. Lui li sovrasta tutti in altezza, ma il suo ruolo s’è convertito ai giorni di pace. E il cerchio si compie. Secondando l’utopia.  
Antonio Natali, 2021