Contributi

Altri Cieli. Elegie del Trovatore, CLAUDIA GIRAUDO
Alesandra Frosini

Altri Cieli. Elegie del Trovatore

Un mondo immaginato, dominato da un’atmosfera di sogno, è un mondo in cui tutto può accadere. È un mondo in cui ogni particolare viene elaborato e diviene allegoria, perché le cose non possono sottrarsi all’epistrophè, alla sindrome del ritorno, spingendosi sempre a congiungersi coi propri archetipi. È un mondo illuminato dalle riflessioni della mente, in un gioco di disegni concentrici in cui si scoprono gli orizzonti della simbologia e perciò della vita. Claudia Giraudo ci accompagna in questo mondo attraverso le opere presentate nella mostra Altri Cieli. Elegie del Trovatore, che appartengono ad alcuni dei cicli più importanti della produzione dell’artista torinese, connesse dal fil rouge della poesia. Che venga declinata in un omaggio simbolico alla produzione e alla creazione del poeta, custode del Mistero, o che si materializzi nel mondo del circo e in particolare nella figura del funambolo, quello che lega tutta la produzione della Giraudo è questa anima sottesa che punta a poetizzare la vita come forma di coincidenza tra l’immaginario e l’esistenziale, tra il desiderio e l’oggetto, seguendone ogni suo aspetto visionario. L’essere umano, in quanto poeta, funambolo o artista, è sempre inteso come un tramite o punto di unione fra terra e cielo, capace di aprire ciò che è vicino e rivelare ciò che è distante. La poesia diviene così una lingua spirituale che condivide con la creazione artistica lo status freudiano di forma di sublimazione e perciò di guida nel percorso umano della vita. E’ prendere consapevolezza che l’interiore è dovunque, tutto ciò che guardiamo e ascoltiamo ne è intriso, e i confini labili che dividono interno ed esterno non sono altro che un segno delle infinite risorse che ci riserva l’esistenza. Ecco come e perché si aggiunge oggi, in un percorso coerente che non cede alle lusinghe dell’immagine “facile”, l’ultima produzione dedicata ai poeti, presentata per la prima volta in questa mostra di Rivoli, la cui suggestione parte dal film “Il colore del melograno” di Sergej Paradjanov. Il film, caratterizzato da un’estrema potenza evocativa e simbolica e dedicato ad una delle figure più celebri della letteratura armena, il trovatore Sayat-Nova (1712-1795) è però solo un pretesto che, attraverso un susseguirsi di immagini di stampo quasi surrealista, diventa uno stimolo alla riflessione sul mondo dei poeti e su ciò che rappresentano nell’universo di Claudia Giraudo. Ci troviamo così davanti ad opere che esplorano l’essenza della creazione lirica e ne evocano le immagini e i simboli correlati: il pensiero si nutre di immagini e nel trittico formato da Io cerco un Tesoro, L’Arte del Trovatore e Pour Vous, raccolta, introspezione ed offerta vengono individuati come gesti fondanti del processo creativo che accomuna poeta ed artista e che, nonostante gli strumenti differenti e le diverse tipologie di risultato, sono significativi della similitudine stretta del processo dell’immaginazione e creazione. Il dono dell’immagine, come quello del verso poetico consistono nel fornirci un luogo da cui osservare la nostra anima e vedere con precisione la verità e il volere che appartiene alle cose. La poesia viene scissa nel principio maschile e femminile, con rappresentazioni che richiamano, nella composizione e negli elementi utilizzati, le relazioni e le forme ricorrenti ed immutabili del fare poetico. Nella coppia di opere Il custode del Mistero e Il canto sussurrato, la figura maschile, frontale e in contatto diretto con lo spettatore, emerge nel buio, da uno spazio siderale, mentre quella femminile, racchiusa nella contemplazione e nell’acme dell’ispirazione, è in piena luce. Lui è come se fosse una poesia di Baudelaire che si rivela a noi, lei una poesia della Szimborwska, puntuale e tagliente: entrambi non possono fare a meno di manifestare la loro essenza e perciò vengono accompagnati dai loro daimon. Quella del daimon è una figura ricorrente nella Giraudo, asse nodale per comprendere la chiamata “per vocazione” di ognuno di noi in questa vita. Tale figura la ritroviamo in Platone, nel mito di Er, alla fine della Repubblica: “Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno preciso, è lui dunque il portatore del nostro destino.” Secondo Plotino, il maggiore dei filosofi neoplatonici, noi ci siamo scelti il corpo, i genitori, il luogo e la situazione di vita adatti all’anima e corrispondenti, come racconta il mito, alla sua necessità.Come a dire che la mia situazione di vita, compresi il mio corpo e i miei genitori che magari adesso vorrei ripudiare, è stata scelta deliberatamente dalla mia anima, e se ora la scelta mi sembra incomprensibile, è perché ho dimenticato”.(1*)Ogni essere è portatore di un’essenza unica che chiede di essere vissuta, una sorta di destino che è anche vocazione, che l’anima sceglie consapevolmente ed in modo ineluttabile e che il daimon ha il compito di ricordarci: la vita è un destino spinto da un desiderio necessario e innato. Nella coppia “poetica” troviamo come compagni il pavone e il camaleonte, quest’ultimo animale assai ricorrente nel bestiario della Giraudo, insieme alla rana e al rospo. Sono tutti animali portatori di simbologie specifiche, rivestite di nuove e molteplici valenze. Se il camaleonte, messaggero degli dei, rappresenta le mille sfaccettature dell’essere e dell’animo umano, nonché la sublimazione della materia e dello spirito, così com’è illustrata nell’opera alchemica, la rana rappresenta per eccellenza la trasformazione, l’evoluzione e quindi anche la rinascita in seguito ad eventi traumatici e la forza della riconquista del proprio equilibrio, mentre il pavone, rappresentato nel bacio col poeta (una delle poche citazioni dirette dal film “Il colore del melograno”), in una sorta di comunione mistica, è simbolo di resurrezione, ma anche di orgoglio e vanità, che c’introduce ad un altro concetto basilare nella poetica della Giraudo: la vanità vista come altro aspetto della bellezza. Se la bellezza è intesa infatti come il raggiungimento di un punto di osservazione privilegiato della realtà secondo una prospettiva di elevata condizione vitale, che significa anche forza attiva nella comprensione della realtà stessa (Le foglie del giardino di Morya; La Vedova), a contraltare troviamo la vanità, intesa come credenza nelle proprie capacità, esplicata ad esempio nella figura della Vergine (La Belle) che ostenta, con atteggiamento sprezzante, la forte affermazione della propria individualità. Soffermandoci ancora un poco in questa lettura, se vogliamo, trasversale, e continuando ad osservare i vari dipinti, potremmo imbatterci nel melograno simbolo dell’energia vitale, nella farfalla che materializza le trasformazioni e le metamorfosi dell’uomo che si innalza e prende il volo, utilizzata in connessione con figure pesanti a impersonare il tema dell’equilibrio in contrasto fra leggerezza e pesantezza. Potremmo infatti vederla legata ad un alce, anch’esso simbolo della connessione fra mondo sacro e profano, caro agli indiani d’America, o ad un elefante, rappresentante di calma, contemplazione e meditazione, nonché della conoscenza. La riflessione della Giraudo procede oltre, utilizzando queste simbologie per seguire quell’immaginazione attiva che permette di mettere a fuoco la vita da punti di vista che non sono i nostri, pensare e sentire partendo da prospettive diverse. In questo contesto ogni figura ed ogni oggetto si si fa contenitore di una memoria innata di ciò che è stato, divenendo al tempo stesso testimone e fruitore di tale memoria. E così i Cieli sotto cui ci troviamo, come abbiamo visto, non sono solo quelli del Trovatore, ma sono molteplici e ricchi di suggestioni e rimandi, sono Cieli Altri, sotto cui si muovono figure diverse, legate da fili che ne segnano le connessioni, o in equilibrio in impossibili contrasti fra leggerezza e pesantezza, o appartenenti ad un mondo circense inteso come metafora dell’illusione della vita: figure dai gesti minimi permeati da una profonda forza simbolica, “messe in scena” in un tempo sospeso, che non sono altro che delicate elegie, affascinanti paradigmi della condizione dell’uomo e dell’Arte. Si aprono davanti a noi gli scenari legati al mondo circense, accanto al bestiario surreale e alle nature morte, seppur vive nel loro essere abitate, come abbiamo visto, da presenze vitali (Cruditè; Fantarcheologia II). Tutti i soggetti sono come figure di una mitologia alternativa bloccate in gesti minimi, e perciò enfatizzate ed iconizzate: sono sospesi in campiture che sembrano astrazioni, in cui non esiste contesto, ma solo un racconto simbolico che passa attraverso i personaggi stessi. I circensi sono ritratti infatti nel momento del riposo, fuori dalla scena, per sottolineare ancor più la metafora della condizione dell’essere umano: sono come catturati nel momento della verità, fuori dalla finzione scenica e perciò messi a nudo nel loro essere umani. Proprio perché fuori dalla scena, ma ancora legati a quella città ambulante che è il circo e al loro ruolo di eroi che sfidano la morte e il limite, li fa assurgere a simboli della connessione fra prosaico e sublime, nella similitudine del percorso umano. Sono acrobati, ballerine, funamboli corredati dai loro costumi e attrezzi di scena, nascosti dietro i colori del loro trucco e del loro abbigliamento stravagante, nell’eco dei suoni intuiti di uno spettacolo finito o da iniziare, nella magia della loro breve apparizione e della loro esistenza da girovaghi. L’effimero e la materialità sono inevitabilmente elementi costanti in continua contrapposizione e nella mediazione fra di essi, sospeso in questa armonia fatta di contrasti, il funambolo trova il suo ruolo accanto al poeta, all’artista e al daimon, che presente in ogni ciclo come compagno delle figure e guida che possiede affinità col mito che abita dentro di noi, diviene anch’esso metafora della condizione umana, nella sua ricerca di un costante punto di equilibrio. Osservando le opere di Claudia Giraudo ci accorgiamo che, al contrario della loro apparenza, sono molto contemporanee: lontanissime da ogni apparente intenzionalità iperrealistica, mostrano una sorprendente rimeditazione sulla pittura, una riaffermazione della natura della pittura che stupisce perché più che ricondurre a una visione del mondo o dell’essere, sembra svelare una conoscenza delle immagini in profondità e in trasparenza. E le immagini che osserviamo sono narrazioni, ma in un senso molto rarefatto del termine. Le immagini hanno perso infatti la loro funzione rappresentativa per trasformarsi da strumento di conoscenza in strumento di coscienza, avvicinandoci alla nostra storia e memoria. Questi lavori sono quanto di più vicino al pensiero di Jean Baudrillard che prefigurava la morte dell’aura dell’opera e al concetto di meta-narrazione di JeanFrancois Lyotard. Sono una sorta di variante manieristica del principio di montaggio, una declinazione del postmodernismo dove ci si confronta con l’intero bagaglio della tradizione artistica senza alcuna distinzione diacronica o gerarchica. Sono opere che si collocano tra il citazionismo, l’anacronismo e il simbolismo, in un superamento particolarissimo ed unico, che vive nella memoria costante della propria identità. Nella pittura della Giraudo si racchiude infatti tutta la tradizione pittorica da Vermeer a Magritte, attraverso una rilettura sincronica in cui convivono elementi appartenenti a tempi molto lontani tra di loro, elementi che non sono assimilati secondo una selezione di tipo gerarchico, ma anzi presenti simultaneamente, affiancando citazioni di pittura colta ad aspetti della pittura popolare come il bestiario immaginario, i tarocchi, gli ex voto, e così via. La sua è un’elaborazione molto complessa, di non immediata interpretazione, che ne fa concettualmente una figura di vera manierista che è anche insieme postmodernista. A tutto ciò si aggiunge una straordinaria qualità tecnica e una forte ricchezza di contenuti, che si sovrappongono per poi scavare dentro di noi, come componimenti poetici densi di profonde e composite stratificazioni, che ci nutrono ogni giorno attraverso un’assimilazione crescente. Viene così alla mente una citazione da André Breton “un cattivo scrittore è come una macchia d’acqua sulla carta, si allarga rapidamente ma ben presto evapora. Un buon scrittore è come una goccia d’olio: quando cade fa una macchia piccola, ma con il passare del tempo si allarga su tutto il foglio fino a riempirlo” (.2*) Forse sta proprio qui quel discrimen che rende la “vera” poesia (la vera creazione artistica) quel miracolo che può cambiare la visione del mondo.
 
Galleria Gagliardi - 2015: Mostra personale di Claudia Giraudo "ALTRI CIELI. ELEGIE DEL TROVATORE"; testo critico di Alessandra Frosini
1*  J. Hillman, Il Codice dell’anima, Milano, 1997, pp. 22-23
2*. A. Jodorowsky, La Danza della realtà, Milano, 2001, p.153