Contributi

Pellegrini, Viaggiatori, Viandanti, SERGIO ZANNI
Elisabetta Pozzetti

Pellegrini, Viaggiatori, Viandanti

Silenti archetipi per una guerriglia imminente
Lo sguardo pare perdersi nelle orbite cave di quegli occhi senza luce, perché tutto hanno visto.Scivola l’attenzione sui cappotti che sembrano non finire mai, come corazze al vento di un tempo che fu, come tonache sopravvissute a una perduta classicità. Sorrette da una leggerezza atavica, le figure di Sergio Zanni hanno invece tutta la dolorosa gravità della memoria del mondo.La giornata è uggiosa, di un maggio che si sente autunnale, che chiama al trench e all’ombrello. La campagna ferrarese distende il ventre alla pioggia feconda, io ritrovo tanto di amato in quelle latitudini desolate e solitarie. Nemmeno il grigiore di un cielo senza clemenza attutisce il mio entusiasmo. Rivedrò Sergio e dopo tanti anni potrò ancora scoprire il racconto celato nella sua fucina.Sì, perché le sue opere sono dispensatrici di favole, quelle favole di tradizione omerica, che miscelano il candido stupore dell’infanzia all’ancestralità del mito, quelle cioè che non sono scritte (non ancora) ma hanno il potere deflagrante di solcare indenni i secoli. Tutte quelle presenze sembrano affaccendate nella loro vita, non ti guardano, sono schive, quasi quanto il loro demiurgo ma proprio come accade con lui, se solo ti attardi a interrogarle il silenzio è squarciato dall’eloquio dell’incanto. In quegli esseri di terracotta è racchiuso un micromondo di pensieri, le loro minute teste sono sorrette da corpi che come colonne doriche ne sostengono tutto il peso esistenziale. Non c’è sbavatura alcuna nella forma, i corpi sono volumi compatti, solidi, essenziali. La sintesi assoluta è propria di un’astrazione raggiunta, di un approdo traguardato. Nel sottrarre materia, carpendo l’essenziale senza perdere di forza, sta la grandiosità del genio. Qualcosa di solennemente arcaico permane in loro, l’Auriga di Delfi respira in quei corpi, innervandoli di una sacralità panteistica, insufflando quella stessa concentrazione tesa verso l’ignoto. Platone, se vivesse ora, urlerebbe ancora più forte lo spregio per l’arte, sentita tanto affascinante quanto potenzialmente sovversiva, perché ispirata dal θειος ϕοβóς, dal divino terrore. Ecco, le sculture di Zanni posseggono una grazia inquietante, ti lusingano blandendoti con l’apparente dolcezza dei soggetti, lirici e sospesi, inchiodandoti invece nell’angolo più buio della coscienza rediviva. E come mai succede ciò? Perché vivono. Vivono delle riflessioni e dei turbamenti dell’artista, delle sue domande a cui mai seguiranno risposte esaustive, il cui eco sarà tramandato al sussurrar delle foglie d’autunno. Del resto, non importa trovare soddisfazione ai quesiti, l’importante è non smettere mai di cercare. Imperativo è non allinearsi al gregge, al conformismo così accomodante e al contempo sterile. I soggetti di Zanni sono battitori solitari, non si accontentano, non cedono, non si fanno comprare.  Sono detentori di una loro verità che ne consolida l’identità. Sono essi stessi semi che fecondano il nostro immaginario, sono potenti “allegorie”, cioè comunicano altro dalla sostanziarsi materico che li plasma. La costruzione fisica è l’arco, il significante, da cui l’artista scocca la freccia, il significato. Dinanzi a quella cuspide difficilmente riusciremo a non essere colpiti. La sua “nobile semplicità e quieta grandezza” non gli deriva dal Winckelmann, per quanto le sue opere potrebbero definirsi neoclassiche per l’amore che trapela per l’antichità, ma piuttosto improntate al dualismo apollineo-dionisiaco di Nietzsche, da un atteggiamento che si situa nel pensiero presocratico, di pungente e costante analisi critica del reale. L’indole di Sergio è quella di un romantico, alla Friedrich, apparentemente issato in cima al monte, al vascello della vita, come i suoi personaggi, e tuttavia con un mare in tempesta nell’anima. Pure la tragedia greca, penso a Sofocle o a Eschilo, potrebbe ben confarsi al suo intimo sentire. L’unica catarsi sta forse nel lasciare libere le sue “creature”, come nomadi in cerca di mete sempre più ardue, sempre più stimolanti che si appagano nella curiosità esclusiva di colui che le ammira. Il viandante dunque non è per l’artista un tema da sviluppare, è l’essenza stessa della sua ricerca pluridecennale. Ciò che crea rappresenta se stesso, l’ego indagatore e mai pago di chi non cede il passo alla letargia del facile e becero intellettualismo ma scende in guerriglia, e lo fa coi propri piedi, magari scalzi, a sentire e soffrire le asperità del terreno e del confronto dialogico tra generazioni, l’irrinunciabile tensione al trascendente, l’incalzare sordo degli anni e degli acciacchi. L’errante è anche colui che attraversa il tempo e lo spazio. È portatore di storie e custode di saggezza. In bilico sul baratro che demarca il passato dall’ignoto, tra la tradizione e il sovvertimento. È colui che del nomadismo cuce un bagaglio interiore di esperienze e aneddoti. È infine colui che della spiritualità fa l’unica ricchezza degna di essere tesaurizzata nella accidentata esistenza terrena. Per tutto questo e per molto di più, i personaggi di Sergio non sono semplici attori di un canovaccio in cerca di autore ma indefessi Titani della nostra epoca, ribelli per antonomasia alla banalità e retrivi al qualunquismo imperante. Archetipi di un’umanità in cammino, in essi arde il fuoco dell’ispirazione e la tenacia del coraggio ad evolvere sempre senza mai tradire le profonde e insondabili radici dell’Io. 
 
Galleria Gagliardi - 2016: mostra personale "Pellegrini, Viaggiatori, Viandanti" di Sergio Zanni, a cura di Elisabetta Pozzetti