Contributi

LA NUOVA METAFISICA DI VITTORIO MIELE, VITTORIO MIELE
Luigi Tallarico

LA NUOVA METAFISICA DI VITTORIO MIELE

In un saggio critico, dettato dall’opera di Vittorio Miele, lo scrittore Giuseppe Bonaviri si è domandato se nel destino storico delle parole si può ricercare il destino dell’uomo. Con la domanda, apparentemente dubitativa, veniva adombrato, non solo l’assurda ricorrente ipotesi duplica tra l’uomo e l’artista, ma soprattutto il conflitto (o il confronto?) sotteso alla trattazione linguistica o
espressiva dell’estetica, nella quale si avverte il disagio (o repulsione?) per l'impostazione analitica dei fenomeni storico - essenziali nell’opera da parte del suo creatore.
D’altronde l’oggetto linguistico, nella specie l’opera di Vittorio Miele, indirizzata - secondo Umberto Mastroianni - su due iter paralleli (“interessi artistici e memorie drammatiche”, ossia in concreto la continuità stilistica interna alla struttura e l’evento esterno della morte del padre, durante i bombardamenti di Montecassino, la cui Abbazia come si sa rabies hostis diruit), non può che essere criticamente decifrato in tutti i suoi sensi. E questo perchè è proprio il “fuori” storico ad essere sovente il “dentro” creativo dell’opera, non escludendosi il presupposto di ordine espressivo che vuole l’arte la forma di un contenuto, come è stato confermato dal filosofo dell’attualismo. Se è pertanto confacente il principio del due in uno, non si dovrebbero straniare le due condizioni dell’essere e del divenire, della soggettività delle parole e del percorrimento oggettivo della storia, a meno che non si voglia ancora enfatizzare lo sforzo crociano di sottrarre gli intellettuali - creatori da ogni conflittualità sociale, in quanto corpi separati e perciò da identificare come “puri addetti ai valori”: valori ovviamente astratti e irrelati. La verità vuole che dare separata importanza alle due categorie può comportare per l’uomo storico, legato al quotidiano, la riduzione della sua opera a cronaca di istoria, mentre per l’esteta, che fugge dalla vita, si profila il rischio di disfarsi di tutte le osservazioni che la storia, cioè la vita, offre come metro di giudizio, perdendo entrambi l’occasione di svelare il mutamento dell’anima dell’epoca.  A voler seguire questa condizione astrattamente bipolare, legata alla moda ideologica del tempo, all’immagine del dolore - rivolta di Vittorio Miele non sarebbe restato: o la scelta di calare nei contenuti quel “dolore” e farlo cantare sia pure in termini cromatici, ma con il rischio di accendere i toni cerimoniali e illustrativi, con una recitazione legata al sensazionale e all’eclatante, come è avvenuto col reportage della “battaglia di Ponte Ammiraglio” di Renato Guttuso. Oppure, per converso, la ricerca di una macerata decorazione di superficie, piatta e senza spazio, soffocata nella luce e grondante una sofferenza astrattamente ricondotta ad un uomo e ad una società fuori dal tempo, alla maniera di Zoran Music.
Ne deriva la conseguenza che, con la prima scelta, l’artista avrebbe ricalcato le orme di un realismo ideologico, legato a certe vicende del quotidiano politico di parte, ma privo di un linguaggio espressivo aderente ai contenuti; con la seconda avrebbe imboccato la via di un gusto neo-bizantino, fuori dalla storia e portatore di un estetismo formale piatto e secco, con una materia polverizzata, priva di vibrazione plastica e di ogni profondità spaziale, perdendo inequivocabilmente i contatti con l’anima del tempo. Se invece guardiamo al rapporto tra la ristrutturazione dell’opera e la presa di coscienza del tempo, cosi come è stato operato da Vittorio Miele, all’indomani di eventi che hanno sollecitato la conflittualità dell’uomo, insieme vittima e carnefice, ci accorgiamo che l’artista e stato indotto, nel coro del conformismo imperante, ad una vera e propria deviazione stilistica, rispetto anche alla cultura locale e del contingente, avendo trovato nella forma d’arte, linguisticamente nuova, una corale oratio vultus animi. Perché per Vittorio Miele, artista di linguaggi e di idee-forza, non cronista di percezioni o di “catastrofi guerresche” (viste comunque dalla parte dei vinti più che dei vincitori), ha contato e conta lo scarto della norma, come dicono i linguisti, per una deviazione conflittuale, in grado di condurre ad una unità dei contrari quei particolari di solito diretti alla identificazione di una realtà mimetica o all’accentuazione dei toni eloquenti e poetici. A tal proposito - e per non lasciare disperdere i giudizi sulla qualità nell’opera di Vittorio Miele - leggiamo insieme un commento di Leopardi (cfr. “Il Parini ovvero della gloria”), per il quale: «Non è dubbio alcuno, che gli scritti eloquenti e poetici, di qualsivoglia sorta, non tanto si giudicano dalle loro qualità in se medesime, quanto dall’affetto che essi fanno nell’animo di chi legge. In modo che il lettore, nel farne giudizio, li considera più, per cosi dire, in sé proprio che in loro stessi». 
«Di qui nasce - prosegue il Leopardi - che gli uomini naturalmente tardi e freddi di cuore e d’immaginazione, ancorché dotati di buon discorso, di molto acume d'ingegno, e di dottrina non mediocre, sono quasi al tutto inabili a sentenziare convenientemente sopra tali scritti; non potendo in parte alcuna immedesimare l’animo proprio con quello dello scrittore; e ordinariamente dentro di se li disprezzano; perché leggendoli, e conoscendoli ancora per famosissimi, non iscuoprono la causa della loro fama...».
Non si conferisce una “fama” all’unità di forma-contenuto di Vittorio Miele, se non si scopre, nell'essenzialità della Wesens-form, la denotazione del suo particolare, rigoroso e potente, che acquista un di più di significato proprio per la soppressione della descrittività di una delle due condizioni del rapporto linguistico e nella quale invece si è impaniata - in termini episodici e corsivi - la rappresentazione dell’impressionismo. È stato infatti osservato che dall’impressionismo è derivata la “predilezione della battuta staccata”, nel contesto di una realtà episodica, collegata otticamente al quotidiano; mentre l’espressionismo si è interessato alla mimica (alla caratura) per ottenere l’animazione della realtà scenica, sintetica e dinamica nell’atto in sé. 
È risaputo che nel teatro espressionista conta la “battuta mirata”, perchè caricata e urlata nel contesto scenico, mentre nella pittura viene messo in primo piano lo stato d’animo, che movimenta dal di dentro la rappresentatività della parola, collocata in superficie nella sua deformazione animistica. Nasce da questa distinzione critica il rilievo del Contini, secondo cui «la categoria grammaticale tipicamente espressionistica e il verbo» (cioè la messa in moto dell’elemento frastico), mentre per la categoria «impressionista è l’aggettivo», se vogliamo esornativo, ancorché dipendente dall’abbellimento del discorso. Sul piano dell'alternanza ne viene di conseguenza che «l’espressionismo non si oppone puramente e semplicemente all’impressionismo, ma cresce su una premessa impressionistica e la ingloba». Boccioni diceva «la supera». Nasce da questa iniziale attenzione per la “battuta staccata” dal contesto (negli episodi isolati e contrastanti di volti-teschi e di urli-morte), l’equivoco di considerare la pittura di \/ittorio Miele “liberatoria” e insieme legata alla “memoria”, in definitiva «ricca di... radici locali, di accorsi postimpressionisti, di nostalgie fantastiche», laddove è invece da leggere nell’espressione il conflitto, nient’affatto fantastico, tra chi avverte la necessità di cambiamento-superamento, per ripristinare un legame nell’uomo che vuol “vedersi dentro”, e tra la natura distaccata e oggettiva, purtuttavia impregnata del sentimento diffuso di gioia cromatica. Da qui l’erompere della crisi, che non libera la coscienza e non avverte il peso della memoria, tutta dislocata nel suo lontano passato, tanto e incombente la ribellione e urgente il grido primordiale, volto all’hic et nunc; tanto sono fragorosi quei rossi e quei gialli contrastati dai blu profondi e dai verdoni cupi, mentre il senso del notturno avanza anche in pieno giorno in quel paesaggio che non presta alcuna attenzione al colore e alla veduta locali. Si tratta in effetti di paesaggio interiore, bloccato perchè marcato nei profili blu o neri, ma che nell’asprezza della sua geometria - delimitata secondo la tecnica del cloisonnisme - non rappresenta la muta olimpicità della beata solitudo, partecipando invece al coinvolgimento, in diretta, dello stato d’animo rivoltoso del soggetto creatore. Con l'evidente risultato che l’immagine, anziché richiamare il mimetismo naturalistico, evidenzia un vitalismo vibrato e deformato, di portata interiore e dinamica. È comprensibile la difficoltà del riguardante inesperto di percepire la diversa scala di valori, ma appare evidente che un’opera d’arte è sempre legata al visivo, ed è inevitabilmente portata a lasciar privilegiare agli occhi dei visitatori le ragioni estetiche, rispetto alle intenzionalità e all’animus decidendi dell'artista. Ne viene di conseguenza che le opere vengono guardate come se fossero avulse dal pensiero che le ha determinate e soprattutto - nella forma - distaccate dagli eventi storici vissuti, mentre per un artista-sismografo, come Vittorio Miele, le vicende vengono continuamente agitate nella forma-colore e finanche drammaticamente presagite come anticipazioni dell’immediato futuro.Come è stato detto, un artista non dipinge i fatti della rivoluzione per dimostrare l’innovatività dell’opera. Consapevole di questo concetto, Vittorio Miele non separa le passioni dalla forma, che indirettamente le esprime, ma - combinando le parole con il destino degli uomini del tempo mette a nudo la discrepanza tra l’io e la realtà, soprattutto l’incomprensibilità di certe terrificanti realtà, che bloccano l’anima in subbuglio e che la dispongono ad un’attesa tutt’altro che pacificata. Ed ecco come il dolore rivolta, per le vicende della vita, affiora in superficie in immagini trepidanti, che anche quando Miele - da artista eternista - non le identifica otticamente e/o ideologicamente, evidenziano comunque il dramma dominato dall’Urschrei espressionista e proprio dell’artista attivista, il quale tramuta il “grido” irrefrenabile in un “urlo condensato” nella struttura stessa delle cose. Non si compiace della rivolta fine a se stessa, ma progetta e costruisce. Il “superamento” appare ora definitivamente raggiunto. In quanto il contrasto tra silenzio apparente delle cose - condensato in una struttura naturale, il cui limitare è bloccato da una intelaiatura geometrica e razionale - e il grido vitalistico e irrazionale, che pervade la sua pittura, ha portato l’artista alla perfetta reductio ad unum degli elementi discordi, confermando lo scopo eternista delL’arte di Vittorio Miele: edificare una nuova e valida metafisica.
 
Galleria Gagliardi - 2009 - Fondazione Mastroianni  mostra antologica "LA NUOVA METAFISICA DI VITTORIO MIELE" di Vittorio Miele a cura di Luigi Tallarico